Era magnifica quell’ultima protesta, e così disperata che riuscì infine a raddrizzarsi. Ogni simpatia andava naturalmente alla vita. Inoltre, non essendoci nessuno a cui importasse o che lo vedesse, lo sforzo gigantesco di un’insignificante piccola falena contro una forza di tale portata, per difendere ciò che nessun altro sembrava apprezzare o voler conservare, era stranamente commovente.
Virginia Woolf, Morte di una falena, traduzione di Anna Nadotti
La scrittura di Kazuo Ishiguro, Premio Nobel per la Letteratura nel 2018, è lineare, precisa e surreale. Costruisce frasi sorrette da cuscini d’aria. Esige un traduttore leggero.
Ishiguro registra l’impaccio della vita che non narra; compone un racconto fedele al racconto senza intreccio della vita. Per farlo utilizza la prospettiva di Polonio, non quella cioè dell’uomo senza qualità, bensì dell’uomo le cui qualità sono messe al servizio del servire.
Lo abbiamo tutti sempre troppo sottovalutato, Polonio, probabilmente per timore di riconoscere la diffusa somiglianza che mostra con una larghissima maggioranza dell’umanità. È facile liquidarlo dandogli del pusillanime, del noioso, dell’insistente ipocrita; è anche troppo facile voler prendere le distanze da lui, rivendicare una lontananza dal suo servilismo, dal suo ossequio del potere, ma a ben pensarci è Polonio che siamo, molto più del filosofico Amleto, molto più del fedele incorruttibile Orazio, molto più del lussurioso, inquieto Claudio, è proprio lui che tendiamo ad essere, il babbeo forbito, portato a spasso da folate di vita e poi sbattuto a terra, magari dietro un arazzo a origliare per l’ultima volta discorsi sull’eventuale pericolo di un altro per finire morti senza nemmeno il privilegio di essere considerati vittime. Un topo! Creature di poco momento, non riscattabili, definite dalla propria meschinità.
A Ishiguro interessa questo tipo di personaggio perché alligna numeroso nella specie umana, recita il suo racconto narrato da un idiota, poi di lui nessuno sente più il bisogno di parlare.
Polonio. Un padre affezionato ma spregevole per la doppiezza spionistica con cui controlla la vita del figlio Laerte e per l’autoritarismo vile con cui fa deragliare quella di Ofelia. Polonio è un erogatore di effetti drammatici. Dalla involontaria comicità delle sue tirate, alla spericolata devozione con cui si sostituisce a Claudio dietro l’arazzo, lo spettatore non prova un solo istante di empatia per questo piccolo uomo come noi: di lui si ride, su di lui si emettono silenziosi giudizi poco lusinghieri, riguardo alle sue scelte si inalbera lo sdegno; poi Polonio muore e noi ce lo scordiamo, subito, nonostante lo strazio di Ofelia e il suo delirio di angoscia su di lui.
Polonio che per vivere resta inutilmente accanto al potente di turno non ci piace, ma quanto ci somiglia. Ishiguro descrive questo lato del nostro rimanere, gli interessa la maggioranza che rimane quasi più del singolo ribelle o del fuggiasco. Perché Stevens, l’ineffabile maggiordomo di Quel che resta del giorno, non segue Miss Kenton? Perché i ragazzi di Hailsham in Non lasciarmi non entrano nel mondo per sparigliare l’ingiustizia?
A Ishiguro interessa la fatica commovente che facciamo per rendere dignitosa la nostra viltà assai più della rara incursione nel territorio del coraggio. Gli interessa quanto siamo disposti a sopportare senza progettare l’evasione. Gli interessa il lato eroico del nostro sforzo di attribuire dignità perfino alla vergogna. Come ha sostenuto durante un’ intervista, la forza della vita ci solleva e ci sposta, come un vento, e quando il vento cala e ci precipita a terra, noi ci affanniamo a sostenere di aver voluto svolazzare e di volere adesso invece riposare. Ci affanniamo insomma ad ammantare di libero arbitrio l’arbitrarietà della vita. Questo è commovente. E torniamo a farlo più volte nella stessa vita. Questo è commovente.
Ripenso al racconto di Katherine Mansfield «La mosca». È del 1922 e narra l’incontro di due padri anziani che hanno in comune la morte di un figlio sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Registra la difficoltà del ricordo, perfino il fastidio che si prova se qualcuno si permette di scomporre il nostro complicato equilibrio invitandoci benevolmente a ricordare. Ma verso la metà delle sue pochissime pagine, quattro o cinque in tutto, l’attenzione del personaggio e pertanto anche del lettore si sposta su una mosca caduta nel calamaio che sta sulla scrivania. L’uomo la salva appoggiandola su un foglio di carta assorbente e poi la osserva procedere al lavorio lento di ripulitura di ali e zampe grondanti inchiostro. Non appena la mosca ha finito la ributta dentro, per salvarla di nuovo. E ributtarla dentro di nuovo. Al terzo tentativo la mosca non ce la fa più. L’uomo la raccoglie sulla carta assorbente e la getta via. Il racconto si conclude con un brevissimo indiretto libero nel quale l’uomo si dice che proprio non riesce a far mente locale su cosa l’avesse turbato poco prima. Era il ricordo di suo figlio morto. E anche il lettore con lui fatica a tornare lassù , ora che ha visto morire una mosca e ha assistito alla sua imperscrutabile buona volontà di sopravvivere.
Ecco, i personaggi di Ishiguro hanno quella sommessa tenacia: non ci si può credere eppure ripartono, ricominciano. Come Tommy che è l’anima di Non lasciarmi. E come Stevens, del resto, in Quel che resta del giorno, e come Axl e Beatrice ne Il Gigante Sepolto, già stanchi e malati all’inizio del loro ultimo viaggio di nozze. Se, come magistralmente dice Beckett, la vita è fatta di recidive, sapere la nostra mortalità è di per sé il più eroico mistero che sopportiamo.
E come lo racconta dunque, Ishiguro, il suo molteplice Polonio?
Senza trasgredire mai il ferreo protocollo della narrazione, Ishiguro costruisce le sue frasi in bilico tra un’eleganza sontuosa e una goffaggine surreale. C’è qualcosa di arcano nel suo inglese, che pure è classico come un abito da uomo scuro. Traducendo ci si accorge di un’anomalia che lo distingue e a poco a poco si fa strada l’idea che la cifra della lingua di Ishiguro sia esattamente questa: una specie di abito da cerimonia indossato su tutte le parole.
Scorro le sue pagine e raramente, anche nei dialoghi trovo un phrasal verb; è un’assenza che si registra a fatica dalla sponda di un’altra lingua ma che, una volta notata risulta essenziale. I phrasal verbs sono l’argento vivo della lingua inglese, il mercurio liquido delle sue frasi, vibranti e non deducibili in base ad alcuna logica.
Perché to break out significa esplodere e to see to occuparsi di qualcosa, perché to pull up significa accostare e to put off rimandare? Senza conoscerli, i phrasal verbs vanno dedotti dal contesto o, più prudentemente, cercati sul dizionario. Ma con Ishiguro il problema è più complesso. Non è il contesto a fornire appigli di senso al lessico della sua scrittura, per una ragione in fondo molto semplice: il contesto, come il narratore, nei testi di Ishiguro non è affidabile. È fondale di scena, mondo di cartapesta, è fatto della stoffa di cui sono fatti i ricordi. Perciò non ci aiuterebbe a risolvere l’ambiguità e comunque e dunque Ishiguro opta per il sinonimo di scuola: usa to postpone per to put off, usa to erupt per to break out, usa to discover per to find out. Come è l’autore stesso a dichiarare al principio di un romanzo, arreda la scrittura con «un gusto che allude a un tenace passato vittoriano».
A costo di irrigidirsi e di suonare artificioso.
La terra straniera dell’infanzia è un luogo letteralmente e geograficamente lontanissimo, nel caso di Ishiguro. Nato a Nagasaki nel 1954, meno di un decennio dopo l’esplosione, si trasferisce «temporaneamente» a Guildford con la famiglia nel 1960, a cinque anni. Nel discorso di accettazione del Premio Nobel, Ishiguro racconta così il suo rapporto con il Giappone
…io conducevo un’altra esistenza a casa con i miei genitori giapponesi. Da noi le regole erano diverse, diverse le aspettative, diversa la lingua. …Tutti i mesi arrivava dal Giappone un pacco contenente i fumetti, le riviste e le pubblicazioni scolastiche del mese precedente, che io subito divoravo. I pacchi smisero di arrivare a un certo punto, forse dopo la morte del nonno, ma i discorsi dei miei genitori su vecchi amici e parenti, e gli aneddoti delle loro vite in Giappone mantenevano un flusso costante di immagini e di impressioni. Senza contare che a mia volta possedevo una riserva di ricordi sorprendentemente chiara e abbondante: dei nonni, dei giocattoli più amati che avevo lasciato laggiù della nostra casa tradizionale giapponese (di cui ancora oggi so ricostruire mentalmente ogni stanza) della scuola materna, la fermata dell’autobus, il cane feroce che abbaiava nei pressi del ponte, la sedia del barbiere adattata apposta per i bambini, con un volante d’auto montato di fronte al grande specchio.
Il risultato di tutto questo fu che, col passare degli anni, molto prima che mi venisse l’idea di creare mondi d’invenzione, avevo il mio da fare a costruirmi mentalmente un luogo dettagliatissimo che si chiamava Giappone – un luogo al quale in qualche modo appartenevo e dal quale traevo in certa misura la mia identità e la mia sicurezza in me stesso. Il fatto che per tutto quel periodo non sia mai tornato fisicamente in Giappone non fece che rendere la mia privata visione del paese più vivida e speciale.
…Oggi sono sicuro che fu la sensazione che il «mio» Giappone fosse al tempo stesso unico e tremendamente fragile a spronarmi a sfacchinare in quella stanzetta nel Norfolk.
E attraverso quella lontananza letterale l’autore è in grado di suscitare in noi il bisogno di preservare il «privato Giappone» di ogni infanzia, unico e tremendamente fragile. Comprendiamo quel desiderio perché ciascuno di noi lo condivide.
I romanzi di Ishiguro non riguardano mai né il qui né l’ora e relegano queste due dimensioni nel tempo e nello spazio non reali. Ci sono solo ieri in noi, e non possiamo neanche fidarci di come li ricordiamo.
Non c’è l’Inghilterra contemporanea in Quel che resta del giorno, né in Non lasciarmi, né in Quando eravamo orfani, e meno che mai, naturalmente ne Il gigante sepolto.
Ogni suo testo corrode e tarla un genere della letteratura popolare inglese e, per farlo, usa un narratore in prima persona e nasconde nell’io il colpevole del caso che il lettore è chiamato a risolvere, come in un romanzo giallo di Agatha Christie, come in un racconto di Arthur Conan Doyle, campioni entrambi di una britannicità di maniera. Quell’io narrante non può essere affidabile perché non lo è la sua lingua, perché è un inglese non idiomatico un inglese che non utilizza i phrasal verbs. Lungi dal proporsi come narratore senza filtro, l’io del testo di Ishiguro usa la prima persona per evitare di riconoscere se stesso. L’io è l’altro che racconta.
È difficile farla a un traduttore. Voglio dire che sei lì, chino sulle parole, una a una e non puoi distrarti anche quando ti distrai, devi decidere, decidere, decidere centinaia, migliaia di volte al giorno. Tengo, lascio, alzo, abbasso, allungo, accorcio, giro, ripeto, sinonimizzo, enfatizzo, sottintendo, modifico, lascio in originale, glosso, invento…, CEDO.
Ebbene, Ishiguro è maestro di un gioco di prestigio pronominale che sconcerta. Se chiedete a dieci lettori del Gigante sepolto in che persona sia narrata la vicenda, io credo che quasi tutti vi diranno in terza. Axl e Beatrice sono accompagnati da pag 5 a pag 329 da un quieto passo narrativo che fa letteralmente dimenticare l’io narrante, che pure c’è, ma rimane sepolto per trecento pagine della storia che racconta. E infine riemerge al capitolo 17, così:
Sono arrivati a cavallo in pieno temporale mentre mi riparavo sotto i pini.
Chi si è riparato sotto i pini?
E così riscopriamo che questa storia di Axl e Beatrice la sta raccontando un io: lo avevamo scordato. Il barcaiolo, l’io, ci traghetta alla fine del racconto in poche righe, ma il romanzo a quel punto è tutto da riconsiderare. Ed è scacco matto, per chi ha la presunzione obbligatoria di non perdersi niente. E qui è stato l’io, niente meno. Sono le sorprese del mestiere, quando credi che non ne avrai più.Anche i dettagli che punteggiano la pagina non diventano chiodi in parete, rifiutano di farsi memorabili, esistono senza significare, come è nella natura delle cose.
Ishiguro li ripete, torna su ogni frase, su ogni oggetto. Si va dietro ai suoi cicli di ripetizione che hanno a loro volta un’insistenza geriatrica, e nella ripetizione si riconosce il marchio di una scelta stilistica, ma più ancora uno strumento di comprensione del mondo e una sincera aderenza al reale. Ripetitivo è l’amore, nella sua compulsiva insistenza, e perciò i vecchi Axl e Beatrice recitano le loro conversazioni che sono sofisticati espedienti di difesa dall’assalto delle verità sepolte. Ripetersi frasi rassicuranti, domande retoriche, risposte scontate non è demenza senile, è sublime saggezza coniugale, è generosa lezione di vita.
Certo le regole della sintassi emotiva del racconto risultano se non sconvolte almeno sospese.
In Ishiguro c’è tutto: sorprese, agnizioni, abbandoni, mortificazioni, smarrimenti, perdite, ma in una sorta di premeditata bidimensionalità, nel costante rifiuto del gioco d’inganno, del trompe l’oeil narrativo. Il paradosso di questo dettato della prosa è che anche la sintassi risulta senza spessore, come un intaglio di carta a riposo. Come un dipinto bianco su bianco.
Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel, Ishiguro racconta passo passo la propria storia a partire dal 1979 quando, poco più che ventenne, si affacciava al mondo dell’arte ancora incerto tra musica e scrittura.
Le sue prime parole sono una dichiarazione di non tracciabilità delle sue origini:
Se qualcuno di voi mi avesse incontrato nell’autunno del 1979, è probabile che avrebbe avuto qualche difficoltà a classificarmi socialmente e perfino in base ai tratti somatici. Avevo al tempo ventiquattro anni.
Della sua lingua dice:
L’unico accento riconoscibile nella mia lingua era quello di un ragazzo cresciuto nel sud dell’Inghilterra appena venato, talvolta, dal vernacolo languido e già fuori moda degli hippie.
Nel corso di una recente conversazione con Ian McEwan alla rassegna Incroci di Civiltà a Venezia, mi sono sentita rivolgere una domanda che mi ha disorientata. Quali strategie adotta, mi è stato chiesto, per restituire la britannicità di Ian McEwan in italiano?
Sono quei momenti in cui si vorrebbe tanto avere una risposta di sfolgorante intelligenza da offrire o, se non altro, un paio di modesti esempi. E invece si resta intontiti per la minima porzione di tempo concessa dalle circostanze prima che tutto sprofondi in imbarazzo e non viene in mente niente, nemmeno una parola che possa dare l’impressione di un lavoro consapevole sui testi di un autore.
L’unica cosa che avevo in testa era «Ishiguro». Ho pensato, come mai non ho un solo esempio della «britannicità» di McEwan e mi si para dinanzi invece la pagina scritta di Ishiguro?
Credo di aver capito che dipende dal fatto che Ishiguro cerca e plasma l’inglesità dei suoi testi a tavolino, per farne un attrezzo di paradossale scardinamento dell’inglesità stessa. Mentre McEwan è quella britannicità di cui declina una sua versione personale, Ishiguro inventa l’Inghilterra non diversamente da come ha fatto nei suoi primi romanzi col Giappone.
Ancora dal discorso di Stoccolma.
Il nuovo libro, che si sarebbe intitolato Quel che resta del giorno, pareva di una inglesità assoluta, sebbene, mi auguravo, non nel senso in cui la intendevano certi autori britannici della vecchia guardia. A differenza di molti di loro, mi ero ben guardato dal presumere che i miei lettori fossero tutti inglesi e di conseguenza dotati di una conoscenza innata di sottigliezze e ossessioni locali.. La mia sarebbe stata una versione dell’Inghilterra di natura diciamo mitica, i contorni della quale, a mio giudizio, erano già presenti nella fantasia di moltissime persone di tutto il mondo, comprese quelle che non avevano mai visitato il paese.
L’Inghilterra di Ishiguro, la sua britannicità sono dunque mitiche, sono costruzioni, scenari artefatti di stereotipi e cliché culturali. Come la sua lingua che non usa i phrasal verbs.
In questi anni passati a tradurre scritture diverse ho spesso riflettuto su che cosa significasse davvero scegliere le parole che adottavo. I miei quaderni sono campi arati dai solchi delle cancellature, dei ripensamenti, degli asterischi. Sarà questo, scegliere? Mi dicevo. E in quale momento della traduzione si verifica davvero la mia scelta, a monte, quando sono ancora concentrata sull’inglese o a valle del lavoro, quando ormai sono in territorio italiano?
Certe volte mi è parso che le parole della traduzione fossero porte scorrevoli sul testo, che si aprissero su uno scenario singolare e, contemporaneamente, ne chiudessero altri, sempre plurali.
Se provo a tradurre l’aggettivo garish inserendo nella frase l’italiano vistoso, o l’italiano chiassoso o l’italiano sgargiante o squillante o appariscente o d’effetto o perfino pacchiano mi rendo conto che indirizzo a cascata tutto ciò che seguirà nella direzione singolare che quell’aggettivo indica, sbarrando la strada a tutti gli altri scenari.
Se il vestito che una donna indossa in una frase è sgargiante, la donna potrà avere un temperamento luminoso, uno spirito vivace, una risata squillante, ma se il vestito è pacchiano il suo temperamento tenderà all’ostentazione di vitalità, la sua risata tenderà alla sguaiatezza.
Ecco, Ishiguro, ai miei occhi, sfoltisce la sinonimia delle parole riportandole al loro significato di scuola, scarnificando l’operato del caso per smerigliare ogni parola fino a riportarla al suo destino.
La forza dell’inglese di Ishiguro come forse quella della sua «inglesità» è proprio quella di ripulire la lingua quasi fino a svuotarla, a disinfettarla per recuperarne la memoria e il destino culturale.
Seguire la sua pista linguistica rende meno ampio il margine di fraintendimento e favorisce la «buona traduzione»; basta affidarsi all’intenzione della frase, della punteggiatura, del pronome personale, senza abbassare mai la guardia.
Ishiguro presenta al lettore un maggiordomo inglese, figlio di un maggiordomo inglese, lo fa parlare, muoversi, pensare come un maggiordomo inglese, lo fa aderire alle nostre aspettative riguardo al maggiordomo inglese al punto che dovrebbe risultare quasi una rigida caricatura, e intanto ci costruisce nella mente un uomo indimenticabile, il maggiordomo Stevens.
Sfonda la prospettiva del servo bloccato dalla compostezza del dovere e dalla dignità del fare bene, e indaga l’anima di Polonio.
Sentiamolo dunque Amleto nella scena seconda dell’atto terzo, nel cuore della storia, mettere in ridicolo Polonio, suonarlo come un docile strumento.
Amleto. La vedi quella nuvola che ha quasi la forma di un cammello?
Polonio. Buon dio, sembra davvero un cammello.
Amleto. Anzi no, a me sembra una donnola.
Polonio. La schiena in effetti è proprio di una donnola.
Amleto. O una balena, forse?
Polonio. Balena, sì, senz’altro una balena.
Ma perché no? Di cosa stiamo parlando, in fondo? Parliamo di una nuvola, che non è un cammello, né una balena né una donnola, ma che può essere tutti e tre, a guardarla dalla prospettiva di Polonio.
E dopo tutto chi non ha cercato, qualche volta, anzi innumerevoli volte, per amore ad esempio, di vedere insieme a un altro donnole e cammelli nelle nuvole?
I traduttori, poi, non fanno altro.
Susanna Basso è nata e vive a Torino. Ha tradotto e traduce, tra gli altri, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Ian McEwan, Martin Amis, Angela Carter, Adichie Ngozi Chimamanda, oltre all’opera completa di Alice Munro. Nel 2010 ha pubblicato Sul Tradurre. Esperienze e divagazioni militanti (Bruno Mondadori editore). È nella redazione della rivista «Tradurre».
Klara è un androide B2 dai talenti speciali, uno straordinario modello di Amico Artificiale. La sua struttura è una vera meraviglia della tecnica, ma sono le sue parole a renderla una protagonista eccezionale. Susanna Basso, che le ha tradotte in italiano, ci invita alla scoperta del capolavoro di Ishiguro da una prospettiva privilegiata.
I libri sono tavole apparecchiate per molti commensali. Tradurre e ritradurre, il sedimentarsi della memoria e la scelta delle parole, la minaccia e la seduzione delle icone: uno sguardo sul «campo lontano». Un dialogo tra Anna Nadotti e Chiara Valerio.