Mentre chiudiamo questo numero dei Quanti, in Pakistan tre mesi di piogge ininterrotte hanno causato la morte di 1100 persone; gli sfollati sono 33 milioni. Si tratta di notizie su cui l’occhio difficilmente cade, nei giornali italiani vanno cercate nei trafiletti, alla sezione esteri. Sugli stessi giornali, negli stessi giorni, piú o meno in prima pagina, si dibatte se abbia senso o meno abolire i jet privati. Ogni anno, stima l’Università di Harvard, sono circa nove milioni le vittime del cambiamento climatico, dove per vittime si intendono soltanto i morti. Ci sono multimiliardari che per fare diciassette minuti di volo emettono la stessa quantità di Co2 emessa da chiunque di noi in due anni circa. L’1 percento piú ricco della popolazione inquina piú di metà del pianeta (80 milioni contro 4 miliardi, per dare un’idea della proporzione). A parte qualche estremista, la gran parte di chi interviene nel dibattito sui jet privati concorda che non abbia alcun senso abolirli. Se ci impegneremo a differenziare il vetro dalla plastica, a non far correre l’acqua lavandoci i denti e a mangiare bio andrà tutto bene. Poi arriveranno le centrali nucleari di nuova generazione. Alla luce di tutto ciò sembra evidente che ci siano, almeno, due problemi. Uno è la furbizia idiota di chi, per citare il Salvage Collective, il collettivo di studiosi, scrittori, attivisti autore di La tragedia della lavoratrice, ha scelto contro ogni resistenza di adorare un culto mortifero e gettare alle fiamme il pianeta piuttosto che il suo valore monetizzabile. L’altro problema, quello di chi in buona fede crede che l’argine all’estinzione lo edificheremo attraverso la tecnica e le scelte di consumo individuali, è invece un problema di prospettiva, abbastanza grosso: è entrato un elefante nella stanza ma vediamo una formica. L’elefante nella stanza è l’universalità della natura, potremmo dire usando le parole dell’antropologo Viveiros de Castro. Il fatto che, ci piaccia o meno, siamo parte di un ecosistema compromesso e instabile che va molto oltre noi stessi, e non basterà un annaffiatoio prodotto da un’azienda alimentata a pannelli solari a spegnere l’incendio.
Non sono cose facili da accettare. Non è facile prendere atto di essere una parte microscopica di qualcosa di tanto grande, cosí grande che la sua totalità sfugge, se ne possono scorgere soltanto dei pezzi in un dato momento. Forse però da questi pezzi, i pochi che riusciamo ogni tanto a vedere, ha senso provare a partire, anche se non sembrano nemmeno appartenere allo stesso puzzle, perché il puzzle è troppo vasto, intricato e terrificante. I Quanti raccolti nella quarta uscita sono tutti percorsi da una natura inquieta: crudele e piena di grazia, minacciosa e minacciata, pericolosa e affascinante. Qualcosa in cui siamo immersi senza potervi aderire, a cui apparteniamo dissonanti, privi di armonia. È la natura del safari in Tanzania nel racconto di Francesca Manieri, un luogo che assomiglia al paradiso ma che paradiso non è, dove i turisti diventano parte dell’ambiente esotico anche senza mai scendere da una jeep. Un contesto apparentemente addomesticato, sicuro, a prova di foto ricordo, in cui lentamente si rivela l’imprevisto del selvaggio, con tutta la sua violenza. Il selvaggio di una terra crudelmente indifferente e quello delle bestie feroci, che richiamate dall’odore del sangue arrivano quando cala la notte. Ma anche il selvaggio che ci portiamo dentro, la nostra crudeltà tutt’altro che indifferente, capace di renderci creature piú spietate di qualsiasi iena della savana. È la natura dei corpi che possono diventare una prigione, perché sono costretti ad abitare un mondo che di naturale conserva ben poco, di cui parla Ilaria Gaspari. Corpi che si giudicano e che vengono giudicati, in cui ci si sente goffe, inadeguate, costantemente in bilico su un filo tracciato dagli sguardi degli altri. Corpi di donne che si devono adeguare alle aspettative di una società a misura di uomo, come nella fiaba di Cenerentola, dove a guardar bene le vere vittime, per cui dovremmo provare empatia, sono le sorellastre, che pur di entrare nella scarpetta, pur di tramutarsi nella donna che cerca il principe e non restare zitelle, sono disposte a tagliarsi gli alluci. Nicolò Porcelluzzi riflette invece sulla natura del linguaggio che si confonde con il linguaggio della natura; un avvolgente flusso di memorie che si dipana tra segnali di un’apocalisse diffusa come pioviggine. Ricordi d’infanzia mescolati a trasmissioni televisive trash, a Gadda, Parise e Meneghello, nello sforzo inaggirabile di dare un senso alla cultura naturale in cui ci agitiamo noi animali umani: immersi da subito in una palude di incertezza, da quando, ancor prima di diventare cittadini, pasticciando con le lingue nella testa cerchiamo di ricostruire la realtà che ci sembra piú vicina al nostro modo di intenderla. E infine c’è la natura fragile, che va difesa dalle ambiziose pulsioni del potere, di cui parla Edward Abbey, che la osserva con gli occhi di un Thoreau disilluso ma animato dallo stesso reverente stupore e dallo stesso senso di indignazione per i soprusi perpetrati in nome del progresso. Soprusi che la gran parte di noi finge di non vedere, nascondendosi dietro un cinismo fatto passare per buon senso.
Antonio Cederna, uno dei piú acuti intellettuali ambientalisti del secolo scorso, metteva in guardia gli umanisti dai rischi che si corrono quando, ereditando una tradizione fatta di accademia, arcadia, cortigianeria e belle lettere, si riduce la natura a paesaggio e il paesaggio a stato d’animo. Tra le tessere di questo puzzle impossibile che abbiamo cercato di comporre, se volessimo trovare un filo conduttore sarebbe proprio l’irriducibilità estetica della natura. Sono quattro pixel di un’immagine di cui non si può godere, troppo luminosa e insieme spaventosa anche soltanto per essere abbracciata da un unico sguardo. Quattro tentativi – parafrasando un passaggio della prefazione scritta da Jack Halberstam per Undercommons – di cogliere una qualche sfumatura della cacofonia e del rumore che ci circondano, per rivelare quanto di inaddomesticabile si cela oltre le strutture che abitiamo e che ci abitano.
La redazione dei Quanti
Spesso nascosto dietro la nebbia mistificante di termini inglesi come smart-working, quiet quitting o great resignation, è tornato centrale il tema del lavoro. Nei nuovi Quanti partiamo dall’esperienza personale, spesso con il suo portato di sofferenza, ansia o umiliazione taciuto nelle narrazioni ufficiali, per cercare di raccontare una dimensione collettiva.
Esiste una differenza tra il nostro corpo come dato biologico e il genere come dato culturale, e come possiamo agire nello spazio di questa differenza? In che misura, ad esempio, la nostra immagine su Instagram “ci rappresenta”? È possibile essere davvero sé stessi attraverso lo specchio della tecnologia? Laura Tripaldi, autrice di Corpi ambigui, in una lunga intervista di Vincenzo Santarcangelo.