Leggere il presente

La resa dei conti tra padri e figli. Intervista a Monica Galfré sul caso Donat-Cattin

G—P
Giulia Priore 16 Giugno 2022 4 min

Monica Galfré, da storica racconta la vicenda straordinaria di Marco Donat-Cattin, dirigente di Prima Linea e figlio dell'allora vicesegretario della Dc. Un uomo che ha vissuto sulla sua pelle un conflitto generazionale irrisolvibile.

Qual è il grado di delicatezza necessario per raccontare la storia così dolorosa di Marco Donat-Cattin (in Il figlio terrorista)? In fin dei conti si tratta di una ferita ancora aperta, quella del terrorismo degli «anni di piombo». Come si fa a scrivere una storia della Storia?

 

Il vero motivo per cui ho deciso di raccontare questa storia risiede proprio nella sua potente carica drammaturgica, che è strettamente ancorata al suo tempo e tuttavia lo oltrepassa. Come in una tragedia greca, al centro della scena ci sono i grandi temi della vita, in primo luogo il dolore e la morte, subìti e inflitti. Di fronte a un fenomeno che come il terrorismo si nutre della carne umana di tutti, vittime e colpevoli, i vissuti e i sentimenti privati diventano imprescindibili.

Per potersi muovere sull’orlo di queste voragini occorre dare fondo a tutta l’empatia e la sensibilità di cui si dispone, senza però mai dismettere, neanche per un secondo, l’esercizio critico, che obbliga a richiamare sempre i contesti in cui i fatti si collocano.

Per molti e complessi problemi, quella degli «anni di piombo» è una ferita ancora aperta, ma se si vuole capirne qualcosa di più vanno messi da parte pregiudizi e censure che, del tutto inevitabili sul piano etico, si traducono in una gabbia sul piano della ricerca.

 

In effetti il problema, assai più esteso, si configura come una resa dei conti tra padri e figli, tutta al maschile, che sancisce il crollo finale della società patriarcale, in un mondo in cui però il potere è ancora degli uomini.

Questa è una storia straordinaria, sia per la vicenda personale di Marco Donat-Cattin (il suo dissidio interiore e il suo rapporto con la colpevolezza). Ma è una storia straordinaria anche perché rappresenta uno scontro tra la generazione dei padri e la generazione dei figli. È difficile trovare qualcosa di simile nel presente. Come mai?

Quella di Marco è una storia unica e tuttavia emblematica del fenomeno eversivo italiano. Per il ruolo politico di primo piano che svolge il padre, Carlo Donat-Cattin, il caso richiama subito l’attenzione sul terrorismo come espressione del conflitto generazionale, inteso in termini non solo politici. In effetti il problema, assai più esteso, si configura come una resa dei conti tra padri e figli, tutta al maschile, che sancisce il crollo finale della società patriarcale, in un mondo in cui però il potere è ancora degli uomini. È un dramma parallelo a quello delle famiglie delle vittime, volti diversi della stessa Italia, dove con la rottura del ’68 gli effetti di una modernizzazione rapida e traumatica si sovrappongono alla contestazione e all’estremismo.

Dopo gli anni ’70 la dialettica tra generazioni ha assunto un andamento assai più vischioso, che non ha annullato il conflitto, ma l’ha frantumato e reso meno riconoscibile. In questa perdita di visibilità si riflette un universo giovanile che, assai ridotto anche in termini numerici, ha completamente perso il ruolo di rottura e di traino che aveva allora.

La sconfitta significa per tutti i militanti la sepoltura di un cadavere ingombrante, ma nei dissociati forte è l’esigenza di non rinnegare la propria storia.

Un aspetto molto interessante è la differenza tra il pentito e il dissociato, una differenza che oggi è forse poco considerata e che anche in questo caso appartiene alla storia del secolo scorso e che poco si adatta al presente. È così?

La differenza tra pentito e dissociato sta tutta dentro una concezione della militanza e della politica che è quella novecentesca, se pur nella sua accezione rivoluzionaria più esasperata. Un’idea totalizzante, tramontata con la fine del ’900 inteso come secolo della violenza, che appare oggi difficilmente comprensibile.

Al di là della sua buona fede o meno, in Marco colpiscono la difficoltà a vestire i panni del pentito e la continua ricerca di un compromesso sostenibile per la sua coscienza di rivoluzionario e di uomo. La sua dissociazione (diversa da quella collettiva che qualche anno dopo interessa l’intera Prima linea) riflette l’esitazione a tradire i compagni e la forza degli ideali rivoluzionari. «Sogni che per molti noi si sono trasformati in incubi», li definisce.

La sconfitta significa per tutti i militanti la sepoltura di un cadavere ingombrante, ma nei dissociati forte è l’esigenza di non rinnegare la propria storia.

Monica Galfré

Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione


Passaggi, pp. 276

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